venerdì 22 aprile 2016

Pillole di Recensione #3

Buongiorno cari lettori!!

La settimana volge al termine, ma il weekend che mi aspetta sarà decisamente intenso, perchè Domenica si sposa la mia nipotina e io le farò da testimone. 
Dire che sono emozionata è assolutamente riduttivo! Spero tanto che la giornata possa portarle solo gioia e meraviglia. 


Parlando di libri oggi vi lascio qualche breve considerazione sugli ultimi libri letti. Come sapete da un po' di tempo sono allergica alle recensioni, pertanto cerco di riassumere le mie impressioni con questa nuova rubrica. 


Le mie ultime letture sono state davvero notevoli, ho due libri a 5 stelle e uno con tre stelline e mezzo.. devo dire che sono davvero soddisfatta. 



Ho scoperto Alessandro D'Avenia grazie a "Bianca come il latte Rossa come il sangue" e da subito mi sono innamorata del suo stile così particolare. 
In questo secondo libro, che mi è stato regalato per il mio compleanno, ho ritrovato un autore sicuramente più maturo con una storia più difficile da raccontare. 

Ogni singolo personaggio ha scavato un solco nel mio cuore, la Palermo descritta si è presa il posto d'onore e Padre Pino Puglisi è uno di quei personaggi di cui si dovrebbe parlare sempre. 
Questo è uno di quei libri che andrebbero fatti leggere nelle scuole, una di quelle storie che i ragazzi devono conoscere, per capire, per esplorare mondi diversi dai loro e aprire gli occhi. 
D'Avenia ha uno stile che si ama o si odia a mio avviso, io per fortuna faccio parte della prima categoria e non smetterò mai di ringraziarlo per aver scritto una storia così importante. 




Volevo leggere questo libro da tanto tempo, così quando ho avuto la possibilità di acquistare la copia illustrata ad un prezzo irrisorio, non ci ho pensato due volte e me lo sono portato a casa. 
Proprio ieri parlavo con Seli di "Ombre Angeliche" di Libri per Ragazzi. Beh questo è un libro per ragazzi, di quelli utili per crescere. E' un di quei libri che può solo insegnarti qualcosa, e che siate adulti o adolescenti io vi consiglio di leggerlo.
Non è una storia semplice. Si piange, si piange tanto. 
Io l'ho letto in giornate in cui avevo davvero bisogno di un minimo di conforto, nella mia vita era appena venuto a mancare un carissimo amico e leggere questo libro mi ha aiutata a sentirmi meno sola, e più serena, nonostante tutto. 
Entra di diritto tra i miei libri preferiti e verrà custodito come un gioiello prezioso. 


Paper Magician  Voto 3,5/5

Dopo due libri così intensi e difficili avevo bisogno di una lettura leggera, e in mio soccorso è arrivato questo volume di cui avevo tanto sentito parlare. 
Devo dire che sono rimasta particolarmente sorpresa dal mondo magico creato dall'autrice. La storia non è comune, ci sono diversi elementi davvero originali e il libro si legge velocemente. 
Per fortuna il secondo volume è già tra le mie mani, e spero di poterlo leggere quanto prima. 
Mi sento di consigliarlo a tutti quelli che sono alla ricerca di un libro leggero, non troppo impegnativo, ma con un tocco di magia e originalità. 
L'ambientazione e un pizzico di crudeltà faranno il resto. Sono sicura che non resterete delusi. 


Anche per oggi vi saluto, spero che i miei consigli possano esservi utili. Fatemi sapere le vostre impressioni.
A presto
Monica 

giovedì 14 aprile 2016

Libri in uscita #100

Buongiorno lettori!!
Che cosa strana, decido di fare un post su un libro che non vedo l'ora di leggere e guarda caso è il CENTESIMO post sui "Libri in uscita". Coincidenze? Non credo. 

Il libro di cui vi parlo oggi è uno di quelli che devono per forza essere presenti nella mia libreria, perchè io amo questa autrice. Ebbene sì, sto parlando ancora di lei: Francesca Diotallevi. 

Lei che mi ha conquistato con "Le stanze buie", lei che ha diviso il mio cuore con "Amedeo; Je T'aime" ora sta per tornare e lo fa con un libro che ha catturato da subito la mia curiosità.

"Dentro soffia il vento" ha vinto il premio nella sezione Giovani per Neri Pozza - Fondazione Pini - Circolo dei lettori. Io lo sto aspettando da mesi, e finalmente abbiamo una data di uscita: il 5 Maggio!!

Partendo dalla cover, assolutamente magnifica, e passando da una trama non convenzionale, sono sicura che questo libro saprà conquistarmi. 


TRAMA: 

In un avvallamento tra due montagne della Val d’Aosta, al tempo della Grande Guerra, sorge il borgo di Saint Rhémy: un piccolo gruppo di case affastellate le une sulle altre, in mezzo alle quali spunta uno sparuto campanile.
Al calare della sera, da una di quelle case, con il volto opportunamente protetto dall’oscurità, qualche «anima pia» esce a volte per avventurarsi nel bosco e andare a bussare alla porta di un capanno dove vive Fiamma, una ragazza dai capelli così rossi che sembrano guizzare come lingue di fuoco in un camino.


Come faceva sua madre quand’era ancora in vita, Fiamma prepara decotti per curare ogni malanno: asma, reumatismi, cattiva digestione, insonnia, infezioni… Infusi d’erbe che, in bocca alla gente del borgo diventano «pozioni » approntate da una «strega» che ha venduto l’anima al diavolo. Così, mentre al calare delle ombre gli abitanti di Saint Rhémy compaiono furtivi alla sua porta, alla luce del sole si segnano al passaggio della ragazza ed evitano persino di guardarla negli occhi.
Il piccolo e inospitale capanno e il bosco sono perciò l’unica realtà che Fiamma conosce, l’unico luogo in cui si sente al sicuro. La solitudine, però, a volte le pesa addosso come un macigno, soprattutto da quando Raphaël Rosset se n’è andato.


Era inaspettatamente comparso un giorno al suo cospetto, Raphaël, quando era ancora un bambino sparuto, con una folta matassa di capelli biondi come il grano e una spruzzata di lentiggini sul naso a patata. Le aveva parlato normalmente, come si fa tra ragazzi ed era diventato col tempo il suo migliore e unico amico. Poi, a ventuno anni, in un giorno di sole era partito per la guerra con il sorriso stampato sul volto e la penna di corvo ben lucida sul cappello, e non era più tornato. Ora, ogni sera alla stessa ora, Fiamma si spinge al limitare del bosco, fino alla fattoria dei Rosset. Prima di scomparire inghiottita dal buio della notte, se ne sta a guardare a lungo la casa dove, in preda ai sensi di colpa per non essere andato lui in guerra, si aggira sconsolato Yann, il fratello zoppo di Raphaël… il fratello che la odia.

Il 5 Maggio mi sembra lontanissimo, ma in realtà basterà avere ancora un po' di pazienza per poter finalmente leggere questo romanzo. 

Se intanto volete immergervi nelle atmosfere di questa nuova avventura, su tutti gli store online è disponibile "Le grand Diable", il racconto Prequel de "Dentro soffia il vento". 

Buona lettura a tutti e un immenso in bocca al lupo a questa autrice che sa sempre stregarmi. 
Monica 



martedì 12 aprile 2016

Citazioni Time "Paper Magician" di Charlie N. Holmberg


Buongiorno miei cari!
Complice questa splendida giornata di sole, a cui aggiungo il buon umore che mi pervade, oggi vi voglio lasciare una citazione piena di colore e meraviglia. 



In questi giorni sto leggendo (a rilento, ma non per colpa del libro che sto trovando davvero carino) "Paper Magician " di Charlie N. Holmberg.

L'altro giorno, invece,  mi sono imbattuta in questo post scritto da 

Non potevo far altro che creare un post apposito, perchè a volte le parole si sposano con le immagini. 


"Ceony notò che erano disposti per colore su tutta la parete, dalla prima all'ultima mensola. Li guardò affascinata. Libri rossi, scuri e chiari, adornavano lo scaffale a sinistra, il più vicino alla porta, e a seguire c'erano quelli arancioni, poi quelli fulvi e gialli, e infine i bianchi. I colori continuavano sullo scaffale di destra: verde, blu, viola, grigio e nero. Incredibilmente bello a vedersi, ma assolutamente assurdo."


Ringrazio Seli per avermi permesso di utilizzare le sue immagini. 
Il lavoro che ha fatto nella sua libreria è qualcosa di straordinario. 
Mi ha quasi fatto venir voglia di provare con la mia...
(seeee vabbe.. ma chi ci crede XD) 

Auguro a tutti voi una giornata ricca di colore e passione.
A presto
Monica 

lunedì 4 aprile 2016

Ritratto di Signora

Buongiorno carissimi!
E' con grande gioia che oggi diamo il benvenuto nella nostra rubrica ad un ospite speciale. 

Chi mi conosce sa quanto io ami l'autrice Francesca Diotallevi, sa quanto io ami i suoi libri "Le stanze buie" e "Amedeo, Je T'aime". 
Proprio per questo, quando le abbiamo chiesto di pubblicare un ritratto per noi, e lei ha accettato non stavamo più nella pelle. 

La sorpresa maggiore l'ho avuta quando ho scoperto che avrebbe parlato di Frida Kahlo. Solo pochi mesi prima avevo assistito ad una mostra fotografica a Bologna, il cui soggetto principale era proprio lei. 


Una donna immensa Frida, con una forza paragonabile a quella di un uragano. Una di quelle donne che non si sono piegate al destino... lascio subito la parola a Francesca, che ha voluto romanzare questo ritratto, come se fosse uno dei suoi meravigliosi libri. 

Dolcissima e fragile. Indomita e visionaria. Il mio Ritratto di Signora vuole omaggiare una
donna le cui ali spezzate non hanno impedito un volo spericolato sugli abissi insidiosi che la vita le ha riservato: la pittrice Frida Kahlo.
Una ragazzina come tante, forse più fiera, o solo più cocciuta, a cui è stata riservata la più difficile delle prove: morire e rinascere. Conoscersi di nuovo, e conoscersi in una veste nuova. Fare della propria debolezza un punto di forza, della propria sofferenza un modo per guardare il mondo con occhi diversi, lasciando dietro di sé una scia di dipinti capaci di incantare, di commuovere, di entrarti sottopelle. Capaci di offuscare anche il gigantesco marito-genio Diego Rivera, il più grande artista messicano dell’epoca.
A diciotto anni Frida, ragazza di buona famiglia, che studia per diventare medico, incappa nel Destino: il suo ha la forma di un tram, e le arriva dritto addosso. Frida è sull’autobus che da Città del Messico la sta riportando a casa, a Coyoacàn. Con lei c’è il fidanzato Alejandro.


Il tram si avvicinò con una lentezza esasperante. Lo vedemmo comparire all’improvviso all’angolo tra Cuahutemotzín e 5 de Mayo, quando stavamo per voltare in Calzada de Tlalpan. Sembrava non avere freni. Fu quella terrificante lentezza a darci la consapevolezza che non ci sarebbe stato scampo. Veniva verso di noi come qualcosa di fatale, a cui sarebbe stato vano opporsi. 

Lo scontro fu inevitabile; poi, senza fretta, il tram iniziò a trascinare l’autobus fino a schiacciarlo contro un muro.
Ricordo lo stridore di freni, lo scossone iniziale, e la sorprendente elasticità dell’autobus, che sembrò reggere l’urto fino alla fine. Le ginocchia dei passeggeri seduti gli uni di fronte agli altri, sulle panche di legno, arrivarono quasi a toccarsi. Tutto tremò e traballò, in un precario equilibrio. Qualcuno cadde, altri fecero appena in tempo a farsi il segno della croce. Cercai lo sguardo di Alex, e quello che vidi nel fondo dei suoi occhi scuri non mi piacque. Fu in quel momento che iniziai ad avere davvero paura. Fu l’ultimo punto di contatto con quella che, fino a quel momento, era stata la mia vita.

Poi tutto esplose. L’autobus si spezzò a metà, la lamiera si accartocciò come se fosse fatta di cartapesta, le assi del fondo si sollevarono e si frantumarono in centinaia di schegge di legno. Qualcuno cadde nella voragine che si era aperta al centro dell’autobus, e venne schiacciato dal tram, che sembrava incapace di arrestare quel suo placido incedere. Passò su di noi come una falce sul grano, non rimase nulla dopo.
Venni scalzata dal sedile e scaraventata con violenza contro la mia sorte. Qualcosa si frappose, in quel volo disperato. Qualcosa che aveva la durezza e lo spietato gelo del metallo. Mi trapassò da parte a parte, a ricordarmi che la vita è un dono e che basta un soffio a spegnerla. Poi ricaddi a terra, tra i cocci di vetro, il sangue e i pezzi di un’esistenza andata distrutta nel momento stesso in cui quel tram era apparso all’orizzonte.
Quello che ricordo, di quei pochi istanti in cui conservo una, seppur confusa, memoria, è l’oro. Il cielo era d’oro, sopra di me; erano d’oro i miei abiti strappati, i capelli impastati di sangue e le gambe nude, piegate in una strana posizione. Non sentivo dolore, non sentivo niente. Volevo solo restare a guardare quella nuvola di polvere dorata che si era sollevata quando il cartoccio dell’uomo che, solo pochi istanti prima, era in piedi vicino a me, conteneva. 

«La bailarina, la bailarina!» gridò qualcuno, vicino a me. In quel momento non capii a cosa si riferissero. Ma dovevo offrire uno spettacolo bizzarro, ricoperta d’oro e con il corrimano di metallo del tram che mi trapassava il corpo. Mi aveva trafitto nello stesso modo in cui una spada trafigge un toro. Feci un sospiro, sentendo all’improvviso una grande stanchezza. Pensai al parasole che mi aveva prestato mia sorella Cristina. Pensai al balero dai bei colori che avevo comprato proprio quel pomeriggio e che tenevo nella cartella. Sperai che non si fosse sciupato; provai a cercarlo ma scoprii, un po’ sorpresa, di non averne le forze.
«Sta morendo?» domandò qualcuno, accanto a me.
«L’ambulanza sta arrivando» rispose un’altra voce.
«Non farà mai in tempo.»
Chiusi gli occhi. Quella che ero stata fino a quel momento, la Frida che per diciotto anni aveva abitato il mio corpo agile e aggraziato, morì su quella strada, palcoscenico su cui si era consumata la prima tragedia della mia vita.


Dicono che per costruire qualcosa di nuovo vada distrutto ciò che c’era prima. Anche per Frida andò così. La ragazza spensierata che fino a quel momento aveva vissuto la vita con entusiasmo e leggerezza scomparve per lasciare il posto a una creatura nuova, più profonda e inevitabilmente segnata. La nuova Frida ha uno sguardo serio, capace di guardare oltre, di indagare al di là della superficie delle cose. La nuova Frida conosce il dolore, quello che ti morde la carne senza tregua, e impara a conviverci. Ci convivrà per tutta la vita, che non sarà lunga, ma sarà una vita coraggiosa, sempre tesa a sfidare i propri limiti, quelli del corpo e quelli dell’anima.

Il bollettino medico, che un dottore dall’aria contrita fece a me e alla mia famiglia, scandendo bene ogni parola, aveva dell’incredibile. L’incidente mi aveva spezzato la colonna vertebrale in tre punti; mi si erano rotti anche l’osso del collo, la terza e la quarta costola. La gamba sinistra aveva riportato undici fratture e il piede si era dislocato e schiacciato. La spalla sinistra era uscita dalla sua sede e le pelvi si erano frantumate in tre punti. Il corrimano di metallo del tram mi aveva perforato l’addome ed era uscito attraverso la vagina. Più tardi ci avrei scherzato, dicendo che avevo perduto così la verginità.

Il fatto che fossi ancora viva era un miracolo, ma non tutti sembravano pensarla così. Mia madre si era chiusa in un ostinato mutismo, non aveva neanche la forza di venirmi a trovare. A chi glielo chiedeva rispondeva che sarebbe stato meglio che me ne fossi andata senza soffrire, invece di restare in vita ed essere costretta a quel supplizio.
Ed era un vero supplizio. Il dolore andava e veniva a ondate, senza darmi tregua. Completamente immobilizzata, me ne stavo a fissare il soffitto bianco dell’ospedale per ore, le lacrime che mi rigavano le guance a causa della sofferenza e della frustrazione. I miei spericolati voli di uccello erano finiti, restava solo il gesso che mi paralizzava e la struttura dentro a cui ero rinchiusa, simile a un sarcofago.
Di notte la morte danzava attorno a me, facendosi beffe della mia sciocca ostinazione. Ma non gliela avrei data vinta. Mai.

Frida sopravvive, dunque. Passa lunghi mesi immobilizzata a letto, rinchiusa in busti di gesso che le impediscono di muoversi. La pittura arriva in punta di piedi, a salvarla, a occupare uno spazio vuoto, a impossessarsi di ogni aspetto della vita di questa ragazza spezzata, ma intenzionata a non lasciarsi sopraffare.
Nemmeno dall’abbandono del fidanzato, incapace di conciliare l’immagine della ragazza allegra e gioiosa con questa nuova Frida invecchiata, di colpo, di cent’anni.

Aprii gli occhi, sbattendo le palpebre nella calda luce del tardo pomeriggio. Avevo le labbra secche, incollate tra di loro. Da mesi vivevo in uno stato di completo intorpidimento, non ricordavo più che giorno era, entravo e uscivo dal dormiveglia. Le mie notti erano popolate di incubi, le giornate diluite nella noia. Il dolore era una morsa continua, come un cane che azzannava senza tregua la mia carne. L’immobilità mi stava consumando. Mi sentivo una pianta che avvizziva in un angolo buio. Senza luce e pioggia che ridessero linfa al mio spirito inaridito mi sarei spenta fino a morirne. 

Voltai il viso verso il comodino, in cerca di del bicchiere d’acqua con cui dare sollievo alla mia gola riarsa e mi accorsi che mio padre era al mio fianco. Seduto sulla sedia su cui si alternavano i membri della mia famiglia, e le poche persone che ancora venivano a farmi visita, mi osservava con i profondi occhi scuri sotto le folte sopracciglia nere.
«Papà» buttai fuori, con una smorfia di dolore, mentre cercavo, inutilmente, di sgranchire il mio corpo nel busto di gesso. Mi sentivo come un mollusco chiuso in un carapace troppo stretto e talvolta mi chiedevo se esistesse ancora la mia pelle, là sotto. Se ci fossero le ossa, se il mio cuore battesse ancora. Spesso, nel corso dei mesi, mi ero sentita tutt’uno con quel calco che mi avevano sagomato addosso, appendendomi per la testa per fare in modo che, mentre si asciugava, la mia spina dorsale fosse perfettamente dritta. Una statua vivente, ecco cos’ero. Un bizzarro esperimento che faceva di me una creatura a metà. Viva, eppure tenuta lontana da quella vita che avevo amato con ogni fibra del mio essere, bloccata in quel letto che era prigione e tomba di ogni mio sospiro. Un colibrì a cui avevano spezzato le ali, che abitava un pianeta di dolore, trasparente come ghiaccio. Avevo imparato ogni cosa di colpo; se le persone che mi circondavano erano cresciute un poco alla volta, io ero invecchiata in pochi istanti, e mi sentivo già stanca di tutto.
«Mia piccola Frida» mormorò mio padre, abbozzando un sorriso. «Come ti senti, oggi?» 

Pensai a cosa avrei voluto rispondere, poi scossi la testa. Non volevo condividere con lui la mia sofferenza, né con nessuno della mia famiglia. Li avevo messi fin troppo alla prova; ogni loro patimento era un senso di colpa che andava ad accumularsi agli altri, quelli che, nonostante tutto, provavo per essere diventata perenne fonte di preoccupazione.
«Un po’ meglio di ieri e un po’ peggio di domani» dissi, per non angosciarlo più di quanto già non fosse.
«Be’, io credo che oggi ti sentirai un po’ più felice» disse lui, chinandosi per prendere qualcosa che aveva appoggiato per terra, al suo fianco. Quando si sollevò vidi che tra le mani stringeva una scatola. La conoscevo bene, era la scatola dei suoi colori a olio. Da bambina mi piaceva sedermi accanto a lui e vederlo sfoggiare le sue modeste capacità pittoriche. Si cimentava per lo più nei paesaggi che offriva Coyoacán. Io, che ero affascinata da qualunque cosa facesse mio padre, studiavo ogni sua mossa nei minimi dettagli, cercando di non perdermi nemmeno un passaggio di quel processo affascinante che rendeva una tela bianca un luogo popolato di immagini e colori. I colori, soprattutto, mi interessavano. Mi piaceva vedere il modo in cui potevano essere sfumati, il modo con cui davano vita alle forme.
«I tuoi colori a olio?» domandai, perplessa. Sapevo che li teneva con grande cura e ne era molto geloso.
Lui annuì: «Ora sono tuoi. Io e tua madre abbiamo pensato…» si bloccò, indeciso su come proseguire. «Da bambina ti piaceva molto disegnare. Potrebbe essere un modo di passare il tempo.» Levai le sopracciglia, stupita da quella nuova prospettiva che mio padre mi stava offrendo. Di tempo ne avevo fin troppo a disposizione. Avrei accolto con gioia qualunque diversivo si fosse frapposto fra me e quella noia spietata che mi avvelenava le giornate, portandomi a fissare il baldacchino del mio letto spesso per ore.
 
Aprii gli occhi, sbattendo le palpebre nella calda luce del tardo pomeriggio. Avevo le labbra secche, incollate tra di loro. Da mesi vivevo in uno stato di completo intorpidimento, non ricordavo più che giorno era, entravo e uscivo dal dormiveglia. Le mie notti erano popolate di incubi, le giornate diluite nella noia. Il dolore era una morsa continua, come un cane che azzannava senza tregua la mia carne. L’immobilità mi stava consumando. Mi sentivo una pianta che avvizziva in un angolo buio. Senza luce e pioggia che ridessero linfa al mio spirito inaridito mi sarei spenta fino a morirne.
Voltai il viso verso il comodino, in cerca di del bicchiere d’acqua con cui dare sollievo alla mia gola riarsa e mi accorsi che mio padre era al mio fianco. Seduto sulla sedia su cui si alternavano i membri della mia famiglia, e le poche persone che ancora venivano a farmi visita, mi osservava con i profondi occhi scuri sotto le folte sopracciglia nere.
«Papà» buttai fuori, con una smorfia di dolore, mentre cercavo, inutilmente, di sgranchire il mio corpo nel busto di gesso. Mi sentivo come un mollusco chiuso in un carapace troppo stretto e talvolta mi chiedevo se esistesse ancora la mia pelle, là sotto. Se ci fossero le ossa, se il mio cuore battesse ancora. Spesso, nel corso dei mesi, mi ero sentita tutt’uno con quel calco che mi avevano sagomato addosso, appendendomi per la testa per fare in modo che, mentre si asciugava, la mia spina dorsale fosse perfettamente dritta. Una statua vivente, ecco cos’ero. Un bizzarro esperimento che faceva di me una creatura a metà. Viva, eppure tenuta lontana da quella vita che avevo amato con ogni fibra del mio essere, bloccata in quel letto che era prigione e tomba di ogni mio sospiro. Un colibrì a cui avevano spezzato le ali, che abitava un pianeta di dolore, trasparente come ghiaccio. Avevo imparato ogni cosa di colpo; se le persone che mi circondavano erano cresciute un poco alla volta, io ero invecchiata in pochi istanti, e mi sentivo già stanca di tutto. 

«Mia piccola Frida» mormorò mio padre, abbozzando un sorriso. «Come ti senti, oggi?»
Pensai a cosa avrei voluto rispondere, poi scossi la testa. Non volevo condividere con lui la mia sofferenza, né con nessuno della mia famiglia. Li avevo messi fin troppo alla prova; ogni loro patimento era un senso di colpa che andava ad accumularsi agli altri, quelli che, nonostante tutto, provavo per essere diventata perenne fonte di preoccupazione.
«Un po’ meglio di ieri e un po’ peggio di domani» dissi, per non angosciarlo più di quanto già non fosse. 

«Be’, io credo che oggi ti sentirai un po’ più felice» disse lui, chinandosi per prendere qualcosa che aveva appoggiato per terra, al suo fianco. Quando si sollevò vidi che tra le mani stringeva una scatola. La conoscevo bene, era la scatola dei suoi colori a olio. Da bambina mi piaceva sedermi accanto a lui e vederlo sfoggiare le sue modeste capacità pittoriche. Si cimentava per lo più nei paesaggi che offriva Coyoacán. Io, che ero affascinata da qualunque cosa facesse mio padre, studiavo ogni sua mossa nei minimi dettagli, cercando di non perdermi nemmeno un passaggio di quel processo affascinante che rendeva una tela bianca un luogo popolato di immagini e colori. I colori, soprattutto, mi interessavano. Mi piaceva vedere il modo in cui potevano essere sfumati, il modo con cui davano vita alle forme.
«I tuoi colori a olio?» domandai, perplessa. Sapevo che li teneva con grande cura e ne era molto geloso. 

Lui annuì: «Ora sono tuoi. Io e tua madre abbiamo pensato…» si bloccò, indeciso su come proseguire. «Da bambina ti piaceva molto disegnare. Potrebbe essere un modo di passare il tempo.» Levai le sopracciglia, stupita da quella nuova prospettiva che mio padre mi stava offrendo. Di tempo ne avevo fin troppo a disposizione. Avrei accolto con gioia qualunque diversivo si fosse frapposto fra me e quella noia spietata che mi avvelenava le giornate, portandomi a fissare il baldacchino del mio letto spesso per ore.




















Frida torna a camminare, e torna ad amare, innamorandosi del gigante (fisicamente e artisticamente parlando) Diego Rivera. Lo sposa, contro il parere contrario dei genitori, che definiscono la loro unione l’incontro tra una colomba e un elefante. Sopporterà, oltre ai propri problemi di salute, anche i dolori inferti al suo cuore dalla maternità negata a causa dell’incidente, e dalla leggerezza del marito, che non perde occasione per tradirla, pur amandola più di qualunque altra cosa. L’ultimo tradimento viene consumato con la sorella minore di Frida, Cristina. È la goccia che fa traboccare il vaso, Frida non regge il colpo. La coppia divorzia.

Io sono dolore. Poso le mani sui reni, cercando di raddrizzare la schiena; è come raddrizzare un albero abbattuto dalla tempesta. Fa male, ma alla sofferenza sono abituata da tanto, troppo tempo. Se guardo indietro non riesco a ricordare cosa significhi vivere senza l’impressione che il corpo, che minaccia di disfarsi a ogni respiro, si tenga invece insieme per miracolo. È questo che la gente sussurrava di me, dopo il primo dei due brutti incidenti che mi sono capitati nella vita: è una miracolata. Io, però, non ci ho mai creduto. La mia salvezza, se di salvezza si è trattato, l’ho vissuta come una condanna. Se è vero che per ogni cosa c’è un prezzo da pagare, il mio debito per essere sopravvissuta credo di averlo saldato da un pezzo. Questo la pelona dovrebbe saperlo.
 Appoggio il pennello sulla tavolozza, il quadro che ho davanti è uno dei più grossi che abbia mai dipinto. Lo volevo così, ingombrante, impossibile da ignorare. Due Frida mi osservano dalla tela. Due me stessa con un solo cuore, diviso a metà. Una è seria, imperturbabile. Nella mano sinistra stringe una foto di Diego bambino, da cui parte una vena che da lui prende nutrimento. La destra è aggrappata alla mano dell’altra Frida, la Frida spaventata, quella che sta morendo dissanguata. La pinza da chirurgo con cui tenta di fermare l’emorragia non basterà a salvarla. Il sangue le macchia la gonna, sbocciando come fiori cremisi sul pesante cotone bianco. 

Lo osservo con aria critica, accendendo una sigaretta. Il fumo si solleva davanti a me, componendo e scomponendo immagini. Diranno che è macabro, spaventoso, funesto. Sì, lo è. È come l’amore, la vita, la morte. È speranza delusa, affetto tradito e desiderio frustrato. È ciò che sono io in questo momento: una donna divisa. Divorziata.
Penso a cosa significa questa parola, per me. È il fallimento di un sogno in cui ho creduto con cieca determinazione. È un naufragio che mi lascia senza forze. Tante volte mi sono rialzata nella vita, e non parlo per metafore. Ci ha provato, la sorte, a spezzarmi le gambe e la schiena. Mi ha lasciato inerme, alla deriva di un mare in tempesta. Ma non è bastato. 

Spengo la sigaretta e ne accendo un’altra. Dicono che fumi troppo, e che beva troppo. E che sia troppo magra, troppo debole e cagionevole per sopportare tutto questo. Ma non mi interessa. Guardo il quadro che ho davanti, l’ennesimo autoritratto che mi aiuta a fare chiarezza, a scorgere me stessa oltre la fragilità della mia pelle. Qui sono colore vibrante ed emozione. Qui sono Frida, molto più di quanto non lo sia nella vita vera. Vivo attraverso una tela, oltrepasso i confini dei mondi, fisso i sentimenti con una sfumatura, in modo che non mi sfuggano mai più, che restino a ricordarmi chi sono e cosa provo.
Non sono stata sempre così. C’è stato un tempo in cui tutto questo non aveva importanza, volevo solo vivere, diventare medico, essere felice. Volavo con la spensieratezza di un uccello dalle ali robuste. Un uccello che non teme venti e tempeste. 

Poi c’è stato l’incidente, il primo, quello che ha deciso il mio destino. Mi ha tolto tanto, ma in cambio mi ha donato uno sguardo nuovo, capace di guardare oltre; mi ha donato l’arte e la consapevolezza che ogni istante può essere l’ultimo. Il secondo incidente, di gran lunga il peggiore, è stato mio marito Diego.




Nonostante tutto, Frida e Diego sembrano destinati a stare insieme, creati per appartenere l’uno all’altra. Si risposano, ed è Diego ad assistere l’amata moglie nei suoi ultimi anni, che sono fatti di atroci sofferenze fisiche. Frida ormai non si alza più dal letto. La colonna vertebrale è a pezzi, le hanno amputato una gamba a causa della cancrena, e tutto il fisico inizia a cedere.
Prima di andarsene Frida annota nel suo diario: 

Spero che la fine sia gioiosa, e spero di non tornare mai più. 

Di lei rimangono i suoi quadri, compagni di viaggio, testimoni intimi, talvolta dolenti, altre surreali, di una vita vissuta fino all’ultimo respiro con coraggio e tenacia. Una funambola sospesa ad altezze vertiginose; un corpo traditore, creato per contenere sofferenza, e una mente libera, in grado di librarsi sopra le brutture della quotidianità. Questo è stata Frida Kahlo, un’anima bella

Grazie mille a tutti per l'attenzione, e grazie a Francesca per il suo prezioso contributo.


 Monica, Miki, Daniela, Francesca, Federica e Jennifer